Perché mi odia? (Il burattino-robot di Jordan Wolfson)

Un burattino d’acciaio pende da una struttura di travi con delle catene metalliche legate al collo, a una mano e a un piede. È enorme, ma non è tanto per le sue sproporzionate dimensioni che rimango in un qualche modo sconcertato, quanto per l’espressione disegnata sul suo viso.

Lo fisso, lui mi fissa. Il suo sguardo è carico d’odio e i suoi denti sono digrignati in una feroce smorfia.Particolare dell'installazione Manic/Love di Jordan Wolfson

Cosa avrò fatto di male per meritarmi un’occhiata così minacciosa, perché tanto livore nei miei confronti e verso tutti quelli che, come me, sono nella sala al piano superiore dello Stedelijk Museum di Amsterdam?

Passano pochi secondi e gli argani che tengono imbrigliate le sue catene si mettono in funzione dando il via a una danza macabra: il burattino galleggia all’interno dello spazio circoscritto dalle travi, a sinistra, a destra, avanti, indietro, veloce, lento, poi ancora veloce. Improvvisamente scivola in picchiata a terra, si rialza appeso a un piede, rallenta riprende velocità, di nuovo a terra.

Il rumore delle catene è assordante e ancora più assordante è il tonfo del gigante che precipita contro il pavimento. A partenze rapide, si alternano lunghi momenti di calma piatta e di silenzi assordanti. Poi all’improvviso un’altra violenta caduta a terra. Il corpo striscia trascinato lungo il pavimento, faccia a terra, poi nuovamente in piedi.

È una danza straziante, una specie di tortura per il burattino e una sensazione di pena comincia ad assalirmi.

In uno dei momenti di calma, dalla bambola gigante esce una voce monotonale, quasi inespressiva. Alterna pensieri di odio a frasi d’amore, verso un anonimo “you” che potrei essere io come ognuno dei presenti in sala. I suoi occhi si illuminano, sono vivi, cercano e incrociano il mio sguardo, mentre le sue parole riempiono l’aria: “…four, to leave you; five, to touch you; six, to move you; seven, to ice you; eight, to put my teeth in you; nine, to put my hand on you; ten, to put my hand in your hair…

Poi precipita ancora a terra e accompagnata dalle dolci note di “When a man loves a woman” di Percy Sledge riprende la macabra danza che sembra non avere mai fine.

 

 

Sono incantato, quasi ipnotizzato, e in questo stato di “trans” inizio a comprendere perché il burattino mi odia, perché mi detesta: è colpa di quelle catene, quei gioghi di ferro che oltre a impedirgli ogni libero movimento, lo trascinano con violenza, soffocando quell’amore che pur esiste nascosto nel suo animo e che si rivela solo a tratti, attraverso alcune delle sue parole.

Mentre lo guardo diventano più chiare anche le improvvise liti nate a un semaforo o a uno stop non rispettato, le risse sfociate da uno sguardo o da una parola sbagliata, gli scontri allo stadio, la rabbia liberata in omicidio, Nicola Stoia davanti a un'autoritratto di Rembrandtl’odio apparentemente immotivato che impregna la nostra società. È tutta colpa delle catene invisibili che ci legano e ci trascinano in una routine di vita che spesso non ci appartiene, che non capiamo e che non sentiamo
nostra.

Attraverso un’arte figlia di quella stessa tecnologia avanzata che avrebbe dovuto renderci più liberi, l’opera di Jordan Wolfson ci mette davanti agli occhi una triste verità: la scienza e la tecnica invece di liberarci dalle catene, ci hanno resi ancora più schiavi, quindi più stressati, più infelici, insoddisfatti e pieni di rancore gli uni verso gli altri. O almeno, questo è il messaggio che quest’opera ha trasmesso a me. Probabilmente non ha niente a che vedere con ciò che voleva esprimere l’artista, ma d’altronde è anche questo il fascino dell’arte contemporanea.

A fatica mi allontano dal gigante dai capelli rossi, ho ancora parecchie cose da vedere ad Amsterdam.

Al Rijksmuseum mi perdo tra le bellezze del passato, cogliendo tutti i ricchi dettagli dei quadri del giovane Rembrandt e abbandonandomi negli intensi colori e tra le forti e pronunciate pennellate dei suoi ultimi lavori, tra l’immensità de “La ronda di notte” e i piccoli gioielli di Vermeer. Quanto conta la dimensione nella buona riuscita di un dipinto? Forse niente.

La pittura, la vera pittura, è grande al di là di ogni dimensione, questi due immensi artisti l’hanno dimostrato.

È facile sentirsi piccoli di fronte a geni di tal valore, eppure sul treno che da Amsterdam mi porta all’Aia, non sono i capolavori di questi due indiscussi maestri olandesi che mi occupano la mente, ma il burattino gigante.

Lo vedo tra gli spenti e apatici pendolari che tornano a casa con triste malinconia, il viso schiacciato sullo schermo del loro cellulare. Lo scorgo al di là del finestrino, nelle silenti sagome umane che si muovono nella luce dei pochi uffici ancora accesi. Lo vedo sul taxi, lo vedo per le strade.
È l’arte contemporanea che fa il suo dovere, mi fa riflettere sul nostro tempo.

Veduta dell'installazione di Jordan Wolfson allo Stedelijk Museum

 

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